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Writer's pictureFrancesco Maffei

XXI° Secolo: Quali Sfide per L'Italia?

Iniziato ormai l’anno 2023 da circa 3 mesi, fra il proseguire della guerra in Ucraina e un clima generale di crisi e tensione su scala sempre più globale, sarebbe opportuno rifocalizzare l’analisi sul piano prettamente nazionale, andando ad indagare, in particolare, quali sono le sfide che l’Italia sta affrontando al momento o si troverà presto ad affrontare. Sono tre i filoni tematici più scottanti, a mio avviso, su cui cercherò di indirizzare nel dettaglio la mia analisi:
- Le rotte migratorie;
- L’espansione turca;
- Le nuove rotte di commercio.

LE ROTTE MIGRATORIE

Partiamo, dunque, con il tema di maggiore dominio pubblico: l’immigrazione, e facciamo subito qualche piccolo salto indietro nel tempo per contestualizzare meglio la situazione. Agli albori del Terzo millennio, la Libia era governata dal rais Mu'ammar Gheddafi, asceso al potere a seguito di colpo di stato che il 1° settembre 1969 depose il re Idris I di Libia. Si trattava di una dittatura militare fondata su una nuova ideologia da egli stesso concepita, basata su una Terza via universale, come affermato dallo stesso nella sua opera “Il libro verde”. Il periodo più critico che il regime dovette fronteggiare corrisponde al biennio 2010-2012: gli anni, ovvero, della Primavera Araba.
Si trattò di una grande fase di proteste, scontri e rivoluzioni che coinvolse tutto il mondo arabo. A scatenarla fu il tunisino Mohamed Bouzizi, che il 17 dicembre 2010 decise di darsi fuoco davanti al palazzo del governo a Tunisi, come forma di protesta per i continui soprusi che gli agenti di polizia gli infliggevano quotidianamente. Il suo gesto fu come gettare un fiammifero acceso in una polveriera e, poco dopo, iniziarono le manifestazioni, che man mano diventavano sempre più violente.
A guidare le sommosse in Libia vi furono in particolare gli avversari storici del rais, ovvero: le circa 140 tribù berbere dell’entroterra libico. Con gli occhi del mondo addosso, il 19 marzo 2011, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 1973 con la quale autorizzò un intervento militare internazionale nel paese nordafricano. Tra i paesi Occidentali, la Francia fu la vera promotrice dell’azione militare, poiché molto interessata ai giacimenti di petrolio che, all’epoca, erano gestiti dall’ENI. Il generale Fabio Mini, già a capo della KFOR, sentenziò lapidariamente così: “L’attacco è un complotto contro Gheddafi a danno dell’Italia”. La missione ONU terminò il 20 ottobre 2011, quando l’oramai ex “uomo forte in Libia” venne ucciso dai ribelli.
Con la morte di Gheddafi si scatenò immediatamente un ulteriore conflitto interno per la successione al potere, che perdura ancora oggi. Mentre il mondo occidentale tornava a casa, infatti, fiero di aver eliminato un “cane rabbioso”, come lo definì Ronald Reagan negli anni ’70, la Libia viveva la sua ora più buia. La perdita dell’unico uomo che era stato in grado di gestire genti, tribù ed etnie diverse per 42 anni portò ad un enorme vuoto di potere, tale che il paese rasentasse l’anarchia. Da qui è sorto il problema più importante per l’Italia sul fronte africano: le migrazioni clandestine.
Si tratta di un fenomeno che ha avuto una crescita esponenziale da dieci anni a questa parte, eccezion fatta per la parentesi 2019-2020, quando i numeri degli sbarchi sono calati drasticamente grazie alle politiche adottate dal governo Conte I.

Nel suo complesso, la politica dei “porti chiusi” ha permesso di ottenere risultati eccezionali riguardo alla riduzione dell’immigrazione clandestina nel breve periodo, con ottime probabilità statistiche di mantenere il trend positivo anche nel lungo periodo, situazione mai verificatasi per la caduta del governo a settembre 2019 e l’ascesa del governo Conte II supportato dal centro-sinistra.
Al di là dei risvolti politici, l’iniziativa dei “porti chiusi” non aveva lo scopo di mettere la parola fine al fenomeno, ma mirava ad essere un gesto di protesta che spingesse ad una trattativa con gli altri paesi UE per un nuovo meccanismo sulla redistribuzione, in sostituzione dell’obsoleta “Convenzione di Dublino” del 1990. Fu così che il 23 settembre 2019 si tenne a Malta un summit tra Italia, Malta (paesi di primo approdo), Francia, Germania (paesi che si offrirono di partecipare alla redistribuzione) e Finlandia (presidente di turno del consiglio UE).
Gli accordi partoriti da questo summit, però, furono di un’ipocrisia impressionante, poiché basati sul principio di libera partecipazione degli stati membri. Infatti, venne stabilito che i singoli stati potessero decidere se partecipare o meno al meccanismo di redistribuzione e, inoltre, i porti italiani e maltesi restarono considerati “di primo approdo” qualora nessuno altro porto in un altro Stato si faccia avanti. In aggiunta, l’accordo fa tutt’oggi riferimento solo ed esclusivamente ai migranti salvati in mare da ONG e da mezzi militari, che, come riporta l’ISPI, rappresenta solo il 9% di chi arriva irregolarmente sulle nostre coste.
Sorgerebbe spontanea la domanda: “perché l’Italia non prova a risolversela da sé?”, magari con un’intesa con Grecia e Spagna, altri paesi di primo approdo. Sembrando infatti appurato che l’UE non abbia un effettivo interesse a risolvere la questione, l’Italia potrebbe sfruttare la diplomazia per mettere fine al fenomeno. Gli Stati di partenza sono tutti localizzati nella regione sub-sahariana e versano in condizioni disperate, senza un potere centrale, prede del terrorismo di matrice islamica, senza contare le ingerenze da parte del resto del mondo, USA e Russia in primis. Da qui l’idea di un’azione diplomatica che si rivolgerebbe esclusivamente ai paesi di partenza, come Libia e Tunisia: provando a creare un nuovo potere forte nella regione nord-africana avremmo innanzitutto un partener strategico per il controllo del Mediterraneo, ma soprattutto restaureremmo un ordine che manca da più di dieci anni.

L’ESPANISIONE L’ESPANSIONE TURCA

Con l’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdogan nell’ormai lontano 2003, la Turchia si è lanciata in un nuovo grande progetto imperialista, cercando ideologicamente di ricalcare i fasti dell’impero ottomano. Per riuscirci, ha dovuto “ristrutturare” completamente la società turca, reintroducendo l’islam come religione “non ufficialmente ufficiale” di Stato. Il risultato di questo lungo processo di uniformazione culturale e di restaurazione della religione è stato una popolazione coesa, con forti valori comuni e pronta a seguire il proprio leader contro tutto e tutti, come ampiamente dimostrato durante il colpo di Stato nel 2016, quando il popolo turco rispose al richiamo del proprio presidente e scese in piazza contro i militari golpisti.
Nel processo di unificazione culturale si è fatto anche molta leva anche sul fattore linguistico, riunendo tutti gli stati turcofoni, quali Uzbekistan, Azerbaigian, Kazakistan e Kirghizistan, nella Comunità degli Stati Turchi, convocata per la prima volta nel 2021, andando a costituire così un’alleanza di stati grandi esportatori di gas e con importanti giacimenti minerari.
Frattanto, Erdogan si è scontrato con la Grecia, per l’annosa questione del controllo dell’Egeo. L’ultima fiammata risale allo scorso settembre, quando l’agenzia di stampa turca Anadolu ha riportato il dispiegamento di navi corazzate greche a Lesbo, con il presidente che dichiarava a gran voce “La pazienza ha un limite. Faremo ciò che è necessario, verremo di notte”.
Negli ultimi anni, infine, la Turchia ha avviato una penetrazione militare, politica ed economica nelle ex-colonie italiane della Libia e del Corno d’Africa. Nel paese nordafricano in particolare ha supportato le milizie di Al-Sisi, portandolo di fatto alla vittoria contro il generale Haftar, all’epoca appoggiato da Putin. In Somalia, invece, è giunta nel 2011 e in dieci anni ha investito circa 10 miliardi di dollari USA. Nel 2016 è stato infatti inaugurato il porto e l’aeroporto di Mogadiscio, ricostruiti in parte con finanziamenti turchi, nonché, la nuova ambasciata (il più grande avamposto turco nel continente africano) e una base militare da 1500 soldati. La Turchia si è parimenti inserita nello scontro tra Eritrea ed Etiopia e sta cercando di apparire con il nuovo pacificatore della regione, obiettivo non semplice vista anche la neonata guerra nel Tigrè, ancora in atto.
Si tratta di un’ascesa frutto non solo dell’ottima strategia turca, ma soprattutto della miope politica estera italiana degli ultimi trent’anni a questa parte. Non vi è stato infatti un solo governo italiano, infatti, che sia stato in grado di sviluppare un coerente e sensato piano per lo sviluppo della politica estera italiana nella regione, nonostante le idee non manchino. Su tutte svetta il complesso sistema del “Mediterraneo allargato”, un progetto che vuole la sfera d’influenza italiana proiettata dallo Stretto di Gibilterra ad Ovest fino al Corno d’Africa, appunto, ad Est, passando anche per il Golfo di Guinea nell’Oceano Atlantico. Tuttavia, potrebbe non bastare. La miopia della classe dirigente verso certi temi ha portato ad una situazione dalla quale appare difficile uscire, specie se altre potenze possono investire miliardi e l’Italia no. C’è da aggiungere, per la verità, che la Turchia non sta vivendo un ottimo momento economico, con l’inflazione schizzata al 80% in pochissimo tempo. Potrebbe essere dunque un buon momento per rispondere alle loro iniziative, ad esempio organizzando un forum nella regione con i leader eritrei, etiopi e somali, così da mostrare che l’Italia è ancora interessata alle sorti del Corno d’Africa in generale.


LE NUOVE ROTTE DEL COMMERCIO

Quando il 22 marzo 2018 il presidente USA Trump dichiarò la “guerra dei dazi” alla Cina, non avrebbe probabilmente mai pensato che quel gesto avrebbe portato allo sviluppo di nuove rotte commerciali, ma, specialmente dalla pandemia da Covid-19 in poi, il mondo ha sembra aver ufficialmente inaugurato la stagione della de-globalizzazione. Il blocco delle fabbriche cinesi ha portato gli USA ad approvare il “Chip and science Act”, che stanzia 50 miliardi di dollari per lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori, mentre l’ampliarsi del conflitto russo-ucraino nel 2022 ha spinto l’Europa a cercare nuovi partner commerciali, dopo aver scoperto (quasi d’incanto) di essere eccessivamente esposta nei riguardi della Russia per l’energia e nei riguardi dell’Ucraina per il grano. Basti solo pensare che l’Autorità di Sistema Portuale di Ravenna ha dichiarato che nel 2021 delle 3.000 navi attraccate 500 provenivano dal Mar Nero, di cui 160 dalla Russia e 200 dall’Ucraina, rotte attualmente bloccate.
Neanche la Cina è stata risparmiata dalla guerra in Ucraina. Il gigante asiatico, infatti, vedeva nel paese dell’est Europa il naturale punto di collegamento tra Oriente ed Occidente. Ora Pechino dovrà inventare un nuovo collegamento, che potrebbe essere il corridoio Pakistan-Iran-Turchia, visti anche gli ingenti investimenti stanziati per la costruzione della ferrovia Islamabad-Teheran-Istanbul, su cui i treni hanno iniziato a viaggiare da gennaio 2022. Con il nuovo collegamento, l’Italia, ma anche l’Europa, rischia di risolvere però un problema generandone un altro. Infatti, se prima la dipendenza era verso la Russia e l’Ucraina, ora si sta orientando sempre di più verso la Turchia, sul cui suolo transitano non solo ferrovie, ma anche gasdotti, come il TANAP (Trans-Anatolian pipeline) che si collega in Grecia al TAP (Trans-Adriatic pipeline), per giungere sulle coste pugliesi.
Una nuova rotta estremamente interessante e su cui il mondo inizia ad avanzare pretese è poi quella Artica. Si stima che entro il 2040 sarà possibile navigare l’Artico nei mesi estivi, offrendo così un collegamento che potrebbe far concorrenza alla rotta di Suez, senza contare tutti i potenziali siti estrattivi che possono essere sviluppati nella regione, la cui sovranità è contesa da diversi stati riuniti nel Consiglio Artico, la cui presidenza è affidata alla Russia fino al 2023. L’Italia è membro osservatore permanente del Consiglio e potrebbe giocare un ruolo interessante nella partita geopolitica con i suoi “pezzi da 90”, ENI su tutti. Tuttavia, dal 2007 Mosca ha iniziato un processo di militarizzazione del territorio artico che non sembra rallentare, caratterizzato dalla riapertura di basi militari nuove o risalenti alla Guerra Fredda, dalla costruzione di porti e aeroporti, fino al reclutamento di due brigate artiche.
Vedremo come si evolverà la situazione, ma una cosa è certa: se l’Italia vuol rivestire un ruolo di prim’ordine a livello internazionale, dovrà necessariamente cambiare atteggiamento, iniziando a mostrarsi forte ed autorevole con tutti i vari attori internazionali sui molteplici scenari che ci riguardano più da vicino. Ciò che è sicuro è che l’atteggiamento mostrato finora è ampiamente insufficiente.

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