Parole e protagonisti della Cina ante-Xi
Introduzione
Da ormai tre quarti di secolo, non esiste vicenda politica in Cina che possa essere raccontata prescindendo dal Partito Comunista Cinese e dalle posizioni che i suoi membri più di spicco occupano all’interno delle istituzioni. Un qualunque osservatore occidentale è allenato ad individuare le differenze tra il proprio sistema sociopolitico e quello cinese: l’orientamento verticale della struttura di potere e l’impenetrabilità di quella che è, a tutti gli effetti, la casta al suo apice non lo meraviglia di certo. Ciò a cui probabilmente non è abituato è il perpetuo scontro tra le principali correnti del Partito, scontro che spesso e volentieri emerge al di fuori delle stanze del potere solamente attraverso specifiche espressioni sapientemente calibrate, inserite con prudenza all’interno dei comunicati ufficiali e nei discorsi pubblici.
Si tratta di una partita per il potere che si gioca su due livelli. Il primo, ideologico, è quello che risalta più facilmente agli occhi di chi voglia esaminare con attenzione i documenti redatti dalla dirigenza del Partito. Ci si potrebbe domandare perché i dissapori tra funzionari conservatori e riformisti, invece che essere discussi privatamente, vengano resi pubblici, ma codificati, in modo tale da essere a malapena percepibili da chi vi si imbatta. La risposta è che, in un paese autoritario come la Cina, rendere pubblica una propria dichiarazione è un privilegio di chi ha potere: si tratta dunque di dimostrazioni di forza, ma subdole ed implicite, dal momento che la sopravvivenza del sistema è legata a doppio filo all’unità dimostrata dal Partito.
Il secondo livello dello scontro, probabilmente di misura ancora più rilevante, è personale. Le relazioni tra patroni e clientes non sono di certo una novità in Cina. Perché un politico raggiunga la sommità della struttura gerarchica del Partito deve essere aiutato nella scalata, sopravvivendo agli attacchi dei suoi rivali nel tentativo di abbatterlo. Affinché ciò avvenga, non essendo sufficiente il solo talento personale, è necessario che un politico più anziano lo prenda sotto la sua ala protettrice. I più promettenti giovani del Partito vengono così selezionati, costituendo una fitta ed intricata rete di connessioni personali che si ritrovano anche ai livelli più alti del sistema politico cinese. La dimensione ideologica, che di certo non può essere esclusa, viene spesso utilizzata come modo per raggruppare sotto lo stesso ombrello i vari membri delle fazioni che in un dato momento storico stanno lottando per la supremazia.
La storia dell’ascesa di Xi Jinping è, come spesso capita in questi casi, la storia di un funzionario particolarmente capace di favorire il dialogo tra i gruppi interni al Partito. Ma è anche la storia di un politico che, in poco tempo, è riuscito, con la forza, a mettere un punto fermo alla lotta tra fazioni, accentrando il potere nelle sue mani. Non da ultimo, è la storia di un cerchio di potere che cambia, della rapida ascesa – e rovinosa caduta – di promettenti uomini del Partito, di promozioni e di purghe. Se vogliamo definire un’era di Xi, dobbiamo inquadrare il contesto politico in cui ne è stato possibile il principio, e, prima ancora, dobbiamo individuare i personaggi che ne hanno permesso l’ascesa e quelli che la hanno ostacolata. Cominceremo con ordine.
Al Vertice della Piramide: le Istituzioni del Potere Cinese
Il Partito Comunista Cinese (PCC) è una struttura estremamente complessa, e non potrebbe essere altrimenti: d’altro canto, è l’unica formazione partitica in un paese che ospita un quinto della popolazione globale. La créme de la créme del Partito è rappresentata dai delegati eletti nel Congresso Nazionale del PCC, l’organo che, in teoria, incarna il supremo potere legislativo in Cina: i circa tremila funzionari che lo compongono eleggono ogni cinque anni le principali cariche politiche della Nazione, tra cui quella di Segretario Generale del PCC – ad oggi, Xi Jinping. Naturalmente, non esistendo una reale distinzione tra potere legislativo ed esecutivo, affermare che il Segretario eserciti una profonda influenza sul Congresso risulta lapalissiano.
La cerchia più stretta intorno al Segretario Generale è costituita dall’ufficio politico del PCC, chiamato anche Politburo “allargato”. Si tratta di una venticinquina di burocrati, i più rilevanti del Paese: ministri, cariche militari, membri apicali dell’amministrazione, segretari regionali, teorici di Partito. Secondo procedura, il Politburo “allargato” viene eletto in seguito alla votazione del Congresso. In pratica, tuttavia, i nuovi membri vengono selezionati attraverso delibere effettuate a porte chiuse dai membri stessi, sia correnti che in pensione, in seguito a consultazioni informali il cui processo i dirigenti si guardano bene dal divulgare.
Inoltre, tra i politici in seno al Politburo, quelli la cui posizione è di peso maggiore si riuniscono nel Comitato Permanente, definito anche Politburo “ristretto” per via della sua esclusività. I suoi membri, nove fino al 2012 e sette in seguito, si riuniscono più frequentemente rispetto all’ufficio politico allargato, e l’organo incarna il massimo grado di potere all’interno della Repubblica Popolare. Tra gli ammessi a tale sancta sanctorum vengono incluse le più alte cariche dello Stato: non possono mancare il Primo Ministro, capo del governo e nei fatti seconda posizione più influente nell’amministrazione cinese, ed il presidente del Comitato Permanente, in terza posizione. Per il resto, pur non esistendo una regola che formalizzi la sua composizione, un soggetto che non viene mai escluso è il Segretario della Commissione Centrale per l’Ispezione della Disciplina. La Commissione, ufficialmente il massimo organo dedicato al contrasto della corruzione, dispone di immenso potere sui grandi dirigenti del Partito, ed è stata frequentemente dispiegata al fine di togliere di mezzo figure scomode e recapitare segnali politici. Non sorprende dunque che il suo funzionario di massimo grado si sieda allo stesso tavolo del Segretario del Partito.
I Protagonisti delle Due Fazioni
Esaurite le dovute premesse, vediamo di mettere a fuoco il contesto in cui si inserisce l’ascesa di Xi a padrone incontrastato del Partito. Era il 2007 quando l’allora Segretario Generale del PCC, Hu Jintao, si riconfermò alla guida del paese per la seconda – ed ultima – volta, dando vita al 17esimo Politburo ristretto. Hu, ingegnere idraulico, costituiva all’epoca il personaggio più di spicco della corrente del PCC chiamata della Gioventù Comunista Cinese, dal nome dell’organizzazione in cui il Segretario si era formato in ambito politico a partire dagli anni dell’università. Tale fazione è generalmente considerata portavoce di istanze più conservatrici, termine che in Cina significa “di sinistra”, e dunque – a grandi linee – affini all’ortodossia socialista. A questo gruppo, anche denominato Tuanpai, venivano frequentemente associati i nomi di altri due componenti del Politburo ristretto, in virtù del loro passato comune: il primo era quello di Wen Jiabao, l’allora primo ministro. Wen, il numero due della dirigenza del PCC, si era speso con frequenza per una maggiore redistribuzione dei profitti derivanti dal boom economico cinese, e il suo atteggiamento tollerante gli aveva fatto guadagnare l’appellativo di “premier del popolo”. Per la verità, la sua fama di uomo dall’alta caratura morale non gli ha impedito di essere accusato, anche oltreconfine, di avere agevolato l’arricchimento dei propri familiari stretti per somme miliardarie. Il secondo personaggio era un funzionario che in futuro avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella storia politica di Xi Jinping: Li Keqiang, il Vice-primo ministro del Consiglio di Stato, delfino di Hu Jintao. Li, giovane economista di grande valore, strenuo oppositore del modello cinese di crescita incentrato sulle esportazioni, ricopriva la posizione di chi era destinato a diventare il successivo Primo Ministro, quando il limite d’età di 68 anni avrebbe, in accordo con la consuetudine, obbligato Wen Jiabao e gli altri funzionari anziani a cedere il proprio posto nel Politburo.
Seduta – metaforicamente – dall’altra parte del tavolo, la cosiddetta fazione di Shangai esprimeva la maggioranza dei membri del Comitato Permanente. Il gruppo, portavoce di un’ideologia più aperta all’economia di mercato, era però, si badi bene, ben lontano dal professare una liberalizzazione del sistema sociopolitico alla maniera occidentale. Il nome di questa corrente deriva dal luogo in cui i suoi principali esponenti si erano fatti le ossa, sotto la guida dell’allora sindaco Jiang Zemin. La “rana” (o “rospo”) Jiang, com’era affettuosamente chiamato dai cinesi a discapito della sua insofferenza verso il nomignolo, fu amministratore di Shangai fino al 1989, quando dopo gli eventi di Piazza Tian An Men venne eletto Segretario del Partito. Nel 2002, raggiunto il limite dei due mandati previsto dalla Costituzione, Jiang si era dovuto dimettere dalla carica in favore di Hu Jintao; tuttavia, la sua presa sul Partito era rimasta salda, ed aveva saputo appoggiare diversi suoi protegés nel raggiungimento delle posizioni apicali del Politburo ristretto.
Tra questi, il presidente del Comitato Permanente Wu Bangguo, elettrotecnico che era passato dalla posizione di operaio specializzato della Shanghai Electron Tube Company a quella di vicedirettore in appena undici anni, occupando in seguito ruoli di vertice nel Partito a Shangai sotto l’amministrazione Jiang. C’era poi Jia Qinglin, da molti descritto come uno yes-man al servizio del “rospo”, di cui è perfino stato, pare, testimone di nozze. Tra l’altro, quando l’allora Segretario piazzò Jia Qinglin alla dirigenza del Partito presso Pechino, l’uomo scelto per affiancarlo come vice fu proprio Xi Jinping. Le file di Jiang annoveravano anche il direttore della propaganda Li Changchun, considerato l’architetto della censura in Cina del World Wide Web, un tempo vicino a Wen Jiabao ma in seguito divenuto uomo del “rospo”, e Zhou Yongkang, l’uomo a capo dell’apparato di sicurezza cinese. Quest’ultimo, soprannominato “la grande tigre”, sarebbe diventato un personaggio che – suo malgrado – avrebbe segnato un prima ed un dopo nella politica interna cinese, come vedremo in seguito. Esiste meno chiarezza in relazione all’appartenenza faziosa del campione dell’anticorruzione He Guoqiang, il Segretario della Commissione per l’Ispezione della Disciplina. Alcuni ne sottolineano il legame con Jiang Zemin, grazie al quale He sarebbe riuscito a sopravvivere agli scandali che lo avevano coinvolto mentre esercitava le funzioni di Governatore della provincia del Fujian; altri fanno però notare come He si sia prestato alla purga di alcuni personaggi scomodi al Tuanpai di Hu Jintao. Tuttavia, è importante tenere a mente che molto spesso tali purghe venivano silenziosamente autorizzate dalla fazione rivale in cambio di accordi, coperture e concessioni.
L’ultimo membro del Comitato Permanente a fare parte del gruppo di Jiang era il Vicesegretario del PCC, Xi Jinping. Varrebbe la pena evidenziare molti dei passaggi della vita di Xi che hanno contribuito a formarlo come politico e che lo hanno aiutato a costruirsi una base di appoggio: l’espulsione del padre – figura apicale dell’amministrazione cinese – dal Partito, i tentativi falliti per entrarvi in gioventù e la gavetta lontano dai centri politici ed economici, che gli ha permesso di farsi notare. Ma in questa sede, ciò che ci interessa è il suo ruolo di principale candidato alla Segreteria del Partito come favorito di Jiang Zemin. Secondo la prassi cinese del gedai zhiding, infatti, ciascun leader dimostrava una preferenza per il proprio erede a distanza di due generazioni. Se Hu Jintao era stato scelto alla fine degli anni ’80 da Deng Xiaoping, il “rospo” aveva dato la sua benedizione a Xi Jinping al termine della 16esima legislatura, dando inizio al complesso “allenamento” che i successori al trono devono portare a termine, uscendone con la reputazione immacolata. All’epoca, Xi era dunque espressione della corrente che ancora deteneva la maggioranza del potere all’interno degli alti ranghi della politica cinese, in contrapposizione a Li Keqiang, l’economista, protegé di Hu Jintao e destinato ad essere il capo di governo. Se vi stupisse il fatto che la preferenza del Segretario Generale fosse stata scavalcata da quella di un dirigente in pensione, ricordatevi del gedai zhiding, e soprattutto del conteggio di funzionari del Partito “affiliati” alla fazione di Shanghai.
Un Contrasto Ideologico - La Prospettiva dello Sviluppo Scientifico
Nonostante lo svantaggio numerico, gli anni del secondo Politburo a guida Hu Jintao erano anni in cui il contrasto tra le due fazioni si era fatto decisamente più acuto. Secondo uno studio, la componente del Tuanpai di Hu nell’Ufficio Politico “allargato” era passata dall’annoverare 5 membri, tra governatori di provincia e segretari regionali, nel 2002 a 20 membri ad inizio 2007. A leggere tra le righe, una testimonianza abbastanza evidente dello scontro è costituita dall’emergere della “Prospettiva Scientifica dello Sviluppo” (Kēxué Fāzhǎn Guān), la nuova linea guida del Partito proposta da Hu, interpretata come la continuazione della “Teoria delle Tre Rappresentanze” di Jiang Zemin. Il punto concettualmente più rilevante era la centralità dell’uguaglianza socioeconomica, concepita come uno spostamento a sinistra rispetto all’approccio più liberista di Jiang. Fa riflettere che, nel commentare l’orientamento interventista, i protetti del “rospo” rilasciarono dichiarazioni sviando su temi meno strettamente “socialisti”: ecologia (Wu Bangguo, l’elettrotecnico Presidente del Politburo ristretto) e cultura (Li Changchun, il capo della propaganda).
Alcune fonti riportano poi lunghe discussioni tra i teorici del Partito, specialmente in relazione alla parola “umanità”. All’utilizzo di questo termine, che venne alla fine incluso nel testo, si opponeva la fazione vicina a Hu Jintao, che avrebbe preferito qualcosa di più simile a “popolo”, in contrasto all’uso di un linguaggio pericolosamente vicino a quello occidentale. Sebbene, naturalmente, non ci siano pervenute trascrizioni delle riunioni in cui il testo è stato redatto, è più che lecito attendersi che la linea “riformista” dell’area ideologica afferente a Jiang abbia trionfato solo dopo numerose trattative. Questo risultato, tra le altre cose, suggerisce che potrebbe avere ragione chi sostiene che gli incontri dei dirigenti ai piani alti del PCC tendano a svolgersi in un’atmosfera poco rilassata.
Il Caso Bo Xilai
Come suggerito in precedenza, all’inizio del 2012, con il 18esimo Congresso del Partito previsto per novembre, la Cina si preparava a salutare il Segretario Hu Jintao in un clima di particolare tensione interna. Ma, anche preso atto del nervosismo generale, nessun osservatore esterno si sarebbe aspettato lo scoppio del caso Bo Xilai, uno dei più grandi terremoti al vertice della Repubblica Popolare. Bo, come Xi Jinping, era figlio di un importantissimo dirigente del Partito allontanato da Mao durante la Rivoluzione Culturale; inoltre, anche Bo aveva completato una lunga gavetta provinciale per scalare la gerarchia del PCC. Si tratta di una mossa che molti analisti considerano spesso vincente: un politico lungimirante dovrebbe tentare fortuna fuori da Pechino – meno avversari, e meno attenzioni indesiderate – in modo da acquisire una posizione di rilievo e costruirsi una base di potere solida. Bo Xilai aveva iniziato a farsi notare come sindaco di Dalian, proseguendo nel 2001 come governatore della provincia del Liaoning, attraverso l’appoggio cruciale del “rospo” Jiang Zemin.
Bisogna stare attenti a non sottovalutare il peso specifico del personaggio. Dovremmo ritenere che ad inizio 2007 Jiang sarebbe stato molto più felice di “promuovere” Bo a vicepresidente (e dunque, in futuro, a Segretario) piuttosto che Xi Jinping. Purtroppo per il vecchio capo del gruppo di Shangai, però, Bo era considerato un candidato troppo legato alla fazione, troppo vicino a Jiang per essere considerato una possibile alternativa. Bo Xilai era sempre stato un politico ambizioso e con pochi peli sulla lingua. Sgradito al Tuanpai, dopo la nomina di Hu Jintao al segretariato, venne spedito ad amministrare la provincia del Chongqing, si dice per allontanarlo da Pechino. Sfortunatamente per i suoi nemici, il dirigente fece un ottimo lavoro, migliorando radicalmente le prospettive socioeconomiche della municipalità e trasformandola nel suo personale potentato. È in questo momento che i suoi critici iniziarono a chiamarlo “il piccolo Mao”: spendeva enormi somme in misure sociali ed intraprendeva durissime politiche di anticorruzione, spostandosi sempre di più verso l’estrema sinistra dello spettro. Ma soprattutto, aveva introdotto nella provincia una sorta di culto della personalità attraverso uno stile comunicativo diverso da quello adottato dagli altri funzionari. In Occidente, probabilmente, chiameremmo questo stile “populista”.
Insomma, il “piccolo Mao” faceva molto rumore, e, sebbene la sua presenza fosse ingombrante per tutti, gli altri membri di spicco della fazione di Shangai erano generalmente disposti a tollerarlo a causa della sua apertura allo scontro frontale con il Tuanpai. In pratica, gli veniva delegato il lavoro sporco. Gli analisti riportano le visite a Chongqing di Wu Bangguo, l’elettrotecnico Presidente del Politburo ristretto, di Jia Qinglin, il testimone di nozze di Jiang, e la lettera pubblica di congratulazioni spedita da Li Changchun, il capo della propaganda: segnali indubbiamente interpretabili come positivi. D’altro canto, alcuni compagni di corrente erano molto più preoccupati dal fenomeno Bo. Il suo nemico naturale, Xi Jinping, era probabilmente spaventato dalle voci circolanti durante il secondo mandato di Hu Jintao, secondo cui Bo sarebbe finito ad affiancarlo nel ruolo di premier. Certo, avrebbe soffiato il posto all’economista Li Keqiang, della fazione opposta, ma quest’ultimo era certamente meno ingombrante dal punto di vista politico. Anche il segretario della Commissione per l’Ispezione della Disciplina, He Guoqiang, aveva avuto degli screzi con Bo, dal momento che quest’ultimo aveva preso di mira alcuni dei suoi protetti durante le sue campagne di lotta alla corruzione in Chongqing.
Il 6 febbraio 2012, il vicesegretario della provincia nonché capo della polizia Wang Lijun, principale alleato del “piccolo Mao” sul territorio, si presenta al consolato degli Stati Uniti con vari dettagli sulla morte di un faccendiere britannico in stretti rapporti con la moglie di Bo Xilai. Pare che quest’ultima avesse avvelenato l’inglese dopo le sue minacce di rivelare informazioni relative alle tangenti inviate alla famiglia. Wang, che aveva coperto l’omicidio – e poi confessato, probabilmente sapendo che sarebbe presto o tardi saltato fuori – venne tacciato di essere fondamentalmente pazzo da parte del resto delle autorità di Chongqing. Intanto però la storia era trapelata.
Sulle ali dello scandalo, accusato di abuso di potere, appropriazione indebita e – tanto per cambiare – corruzione, Bo Xilai venne condannato all’ergastolo. Non siamo in grado di confermare la verità della storia, che potrebbe anche essere una montatura da parte dei vertici del Partito a lui ostili. Sappiamo però due cose: che la scomparsa di Bo Xilai dalla scena politica ha spianato la strada a Xi Jinping, libero da un rivale particolarmente pericoloso, e che, in secondo luogo, il caso ha dato il via ad una stagione di purghe poi culminata con l’evento che avrebbe dato ufficialmente inizio all’epoca autoritaria di Xi: quella della “grande tigre” Zhou Yongkang.
Zhou era da molti considerato uno dei pesi massimi del Politburo ristretto, proprio in virtù del suo strapotere in ambito securitario. Si occupava di tutto; il suo tentativo di rendere la gestione della sicurezza interna molto più autonoma rispetto al governo centrale aveva avuto successo. Dopo la nomina di Xi, “la grande tigre” costituiva una delle principali minacce per il neo-Segretario; questo, perlomeno, fino al 2014, e cioè quando venne accusato di aver protetto Bo Xilai durante la visita di Wang Lijun al consolato statunitense. L’arresto di Zhou Yongkang è stato il primo a coinvolgere un ex-membro del Comitato Permanente, una linea rossa che prima di Xi era stata oltrepassata solo da Mao durante la Rivoluzione Culturale.
La Nomina a Segretario: il (quasi) Principio dell'Impero di Xi Jinping
Il 15 novembre 2012 il Congresso del Popolo elegge, come ampiamente preannunciato, Xi Jinping come Segretario del PCC. Alcuni analisti hanno sostenuto che il primo Politburo ristretto a guida Xi fosse quasi esclusivamente in mano alla fazione di Shangai, con la sola eccezione del premier Li Keqiang. Non è però detto che la divisione nelle due “classiche” fazioni potesse essere considerata attuale anche in quegli anni. In primo luogo, è lecito attendersi che l’età del “rospo” Jiang cominciasse a negargli alcune facoltà necessarie per mantenere salda la presa sul Partito. Secondo, forse diretta conseguenza, forse sintomo dei tempi, la fazione di Shangai era sempre più disunita. Abbiamo già anticipato il contrasto tra il gruppo della “tigre” Zhou e quello di Xi Jinping. In effetti, il Segretario aveva preso le redini di una costola della corrente, che è stata chiamata fazione di Shaanxi in onore della provincia in cui Xi aveva iniziato la sua carriera. Grazie ad alcuni stretti alleati era riuscito a costruirsi un centro di potere autonomo, nucleo di quello che negli anni a venire sarebbe diventato il gruppo dominante nel Partito. Un esempio era il nuovo Segretario della Commissione per l’Ispezione della Disciplina Wang Qishan, chiave di volta della fazione di Shaanxi, che Xi conosceva dall’adolescenza; i due avevano condiviso il lavoro nelle campagne all’epoca della purga del padre.
I primi anni della presidenza Xi trascorsero dunque all’insegna delle lotte intestine. Determinante fu il tentativo di mettere tutte le fazioni d’accordo, perlomeno da un punto di vista ideologico, attraverso la linea del “Sogno Cinese”. La teoria, per quanto presentasse elementi di minore ortodossia rispetto alla Prospettiva dello Sviluppo Scientifico, delineava una prospettiva nazionalista che de-politicizzava l’avanzamento economico. Insomma, secondo la linea di Xi, invece che crescere per ridistribuire o crescere per arricchire la classe produttiva, la Cina avrebbe dovuto crescere per evitare il ritorno dei “cento anni di umiliazione” che avevano preceduto la Rivoluzione Culturale.
Dal punto di vista delle relazioni personali di potere, invece, Xi Jinping sapeva che l’unità del Partito sarebbe passata per l’epurazione degli elementi destabilizzanti. Naturalmente, per metterla in termini economici, qualora non vi fosse stata una domanda di stabilità, l’azione “a pugno duro” di Xi non sarebbe stata ammessa. Tuttavia, diversi analisti ammettono che la lotta di fazione si era fatta insostenibile, al punto che la presenza di un uomo forte al comando era diventata una necessità piuttosto che una preferenza personale.
Nei primi anni della Segreteria Xi, dei 205 membri del Politburo allargato, ne sono stati rimossi 25 sulla base di accuse di corruzione. Chi avesse potuto viaggiare nel futuro di qualche anno avrebbe scoperto che sarebbero stati altri ancora i personaggi illustri perseguitati dalla presidenza di Xi Jinping. Alcuni, non direttamente: per esempio, il “premier del popolo” Wen Jiabao che, divenuto un portavoce dell’insofferenza verso il governo in carica, aveva camuffato il suo dissenso all’interno di un libro sulla propria madre. Ne venne riportato l’arresto del figlio nel 2017, nonché quello di una miliardaria donna d’affari a lui molto vicina, nello stesso anno. Naturalmente, il caso che fece più scalpore in assoluto fu quello dell’allontanamento dal Congresso del precedente Segretario Hu Jintao, avvenuto in diretta durante la plenaria di fine 2022. La copertura di questo evento fu molto ampia in Occidente, e non ci dilungheremo sui dettagli. Vale però la pena notare come Xi Jinping avesse così superato l’ultima, insuperabile, linea di confine: a quel punto, nemmeno un ex-leader della Repubblica Popolare era più intoccabile. Una mossa, questa, che tradisce un’irrinunciabile sicurezza: rimuovere un vecchio Presidente è, per un Presidente in carica, un atto che va contro ogni possibile istinto di autoconservazione. Forse Xi si aspetta di non andare mai in pensione?
Conclusione
Questo articolo aveva l’ambizione di fornire una panoramica dei complicati meccanismi della politica interna cinese; intendeva farlo presentando le fazioni, i protagonisti e gli eventi salienti del periodo che ha preceduto l’accentramento del potere nelle mani di Xi Jinping.
Sono diverse le ragioni che ci inducono a pensare che la dinamica dello scontro violento tra gruppi di potere, intrinseco nella politica cinese, sia ormai cosa del passato. L’era di Xi ha mostrato al mondo un leader sempre più autoritario. Il limite temporale dei due mandati, introdotto dalla costituzione cinese per impedire l’ascesa di un nuovo Mao, è stato oltrepassato senza colpo ferire. Inoltre, se è vero che, alla data del 20esimo Congresso, Xi Jinping aveva ormai 69 anni abbondanti, ciò non gli ha impedito di proseguire l’esercizio della carica, svuotando di valore anche la prassi cinese di un limite di età che consentisse un continuo ricambio generazionale.
Sebbene nella narrativa ufficiale resti di fondamentale importanza il carattere nazionalista e lo sviluppo economico (sempre, sia chiaro, inquadrato nell’ambito del patriottismo), è naturale che Xi Jinping, nella sua ascesa a leader forte, abbia dovuto riesumare alcuni elementi dell’ideologia politica “di sinistra”: attenzione spostata dalle necessità dell’individuo a quelle della società cinese nel suo complesso, centralità della funzione del Partito nella progressione del socialismo, redistribuzione della ricchezza. Ciò, d’altro canto, ben si sposa con la tendenza di crescita, negli anni precedenti all’epoca di Xi, dei membri della fazione della Gioventù Comunista Cinese.
Non sappiamo se Xi abbia “tradito” gli ideali riformisti di Jiang per opportunismo, o per convinzione personale, o perché resosi pragmaticamente conto che una linea unitaria avrebbe potuto davvero giovare allo sviluppo della Cina. Di certo, però, non si può affermare che, nel lungo termine, la fazione di Hu Jintao abbia prevalso su quella di Jiang. Se è vero che nel 19esimo Politburo ristretto erano ben 3 gli uomini della Gioventù Comunista Cinese, nell’ufficio politico allargato, dei restanti diciotto componenti, sedici avevano legami personali con Xi Jinping. Senza contare che, nel 20esimo Comitato Permanente del Politburo – nominato nel 2022 ed ora in carica – i membri fedeli al Segretario sono la totalità. Impossibile non individuare nella fazione di Xi, almeno per ora, la vera vincitrice.
Lo scontro tra correnti si ripresenterà in futuro? Dipenderà da vari fattori. Xi Jinping è, naturalmente, considerato abbastanza forte da poter designare direttamente un proprio successore. Le variabili che possono far vacillare la leadership del PCC sono però imprevedibili: la situazione a Taiwan, l’emersione di una nuova pandemia, una nuova crisi economica. Ma soprattutto, nessuno può assicurare a Xi Jinping che, tra i 99.1 milioni di iscritti al Partito Comunista Cinese, non si stia andando a formare una nuova fazione pronta a scalzare la sua.
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