“Divide et impera”: il motto attribuito a Filippo il Macedone ben si adatta a quella che oggi viene chiamata “guerra cognitiva” e che, nella sua forma più estrema di guerra psicologica e propagandistica, può arrivare a dividere la società più coesa e fiaccare la sua volontà e la sua capacità di reagire e di resistere agli attacchi di un threat actor. Il termine “guerra cognitiva” o “cognitive warfare” è entrato nel lessico solo negli ultimi anni grazie al generale dell’USAF, l’aeronautica statunitense, David L. Goldfein che ha coniato il termine nel 2017 osservando che stiamo attraversando una guerra di logoramento di questo tipo. “Nella guerra cognitiva, la mente umana rappresenta il nuovo campo di battaglia”, così, il neuroscienziato James Giordano, ha delineato il futuro delle strategie belliche: d’altra parte l’obiettivo è cambiare non solo ciò che le persone pensano, ma anche il modo in cui agiscono.
Gli obiettivi della guerra cognitiva, infatti, possono essere tattici, con orizzonti temporali brevi, oppure strategici, con campagne protratte nel corso di anni. Una campagna militare condotta su questo campo potrebbe concentrarsi sull’obiettivo d’impedire che una manovra militare si svolga correttamente oppure alterare una specifica politica pubblica. Sul lungo termine, invece, potrebbe avere l’obiettivo di minare i processi democratici, seminando dubbi, innescando disordini o istigando fazioni estreme.
Chi sceglie di condurre questo tipo di scontro, ad esempio attori quali Cina e Russia o organizzazioni terroristiche come Daesh, lo fa perché struttura le proprie strategie in modo da evitare uno scontro diretto con le forze avversarie, vale a dire per evitare una guerra convenzionale, in particolare quelle ad alta intensità. Ciò implica scegliere i propri obiettivi strategici e tattici in domini diversi da quello fisico in senso stretto, cercando di mantenere lo scontro a un livello di provocazione o comunque al di sotto di una certa soglia che, superata, potrebbe causare una risposta militare convenzionale. In questo senso l’efficacia della funzione deterrente delle armi convenzionali sta cambiando: se per l’opinione pubblica un esercito ben armato offre ancora oggi un’immagine di una nazione potente, in realtà conta sempre più la capacità di offesa e di difesa a livello informatico. Si potrebbe dire che le armi tattiche più efficaci non sono più i sottomarini ma le tastiere e i mouse. Infatti, l’efficacia di armi cinetiche letali sarà sempre più soggetta al rischio di un disorientamento, o per dire in altro modo, prolungati stati confusionali causati dagli attacchi di avanzati strumenti digitali in grado manipolare contesti e contingenze in una misura senza precedenti.
La guerra cognitiva infatti integra capacità informatiche, psicologiche e d’ingegneria sociale per raggiungere i propri obiettivi. Sfruttare la rete e i social network per indirizzare determinate informazioni a influencer o a specifici gruppi in modo che queste possano diffondersi repentinamente nella società può avere effetti altrettanto efficaci di quelli che si potrebbero ottenere con una guerra convenzionale ma con costi sociali di gran lunga minori. Questa forma di conflitto cerca di seminare il dubbio, induce narrazioni contrastanti, polarizza l’opinione pubblica, radicalizza gruppi estremi e motiva ad atti che potrebbero destabilizzare intere società. E l’uso diffuso di social media e dispositivi intelligenti può rendere gli Stati particolarmente vulnerabili a questi tipi di attacchi. Per fare un confronto con il passato, un uso massiccio di questi strumenti potrebbe avere lo stesso impatto che ebbe il permesso del Kaiser Guglielmo II dato a Lenin di poter viaggiare su un treno blindato partito dalla Germania e diretto in Russia nel 1917.
È utile notare che le fake news non sono necessarie per raggiungere gli obiettivi di questa nuova forma guerra, che rientra nell’alveo della cyberwarfare, Con la violazione di un account di posta elettronica di un funzionario o di un manager di azienda di Stato o di una multinazionale anche un documento imbarazzante, diffuso in forma anonima sui social media è sufficiente a provocare dissenso se non il caos. Le applicazioni più comuni sui nostri dispositivi tengono costantemente traccia di ciò che ci piace e di ciò in cui crediamo; gli smartphone tracciano dove andiamo e con chi trascorriamo il nostro tempo; i social network indicano con chi ci associamo e chi, invece, volutamente escludiamo. E le piattaforme di e-commerce utilizzano questi dati per influenzare le nostre preferenze e convinzioni, mandando stimoli per incoraggiarci ad acquistare beni. Finora, i consumatori hanno visto e accettato questi benefici, trovandosi sempre più spesso in comode “bolle”, in cui notizie, opinioni e persone sgradite, vengono facilmente escluse oppure riproposte rafforzando la nostra stessa zona di comfort.
Da questo punto di vista, gli spunti di riflessione offerti dall’analisi di Riesman sulla società di massa in “La folla solitaria”, di una società condizionata tanto da un mondo reale quanto da uno percepito e fortemente omologata pur nelle sue frammentazioni, restano ancora oggi attuali: il pericolo è la sua vulnerabilità intrinseca legata al problema della crasi tra auto direzione ed etero direzione, tra autonomia e conformismo.
I social media e i dispositivi intelligenti in questa partita giocano un ruolo molto più importante e incisivo di quello una volta attribuito alla semplice televisione. L’uso massivo e pervasivo dei social media può condizionare i nostri processi cognitivi rafforzando pregiudizi e inducendo a compiere errori decisionali: i feed di notizie e i motori di ricerca, infatti, forniscono risultati in linea con le nostre preferenze aumentando il “bias di conferma” e radicalizzando le nostre convinzioni. Così anche le app di messaggistica che avvisano costantemente gli utenti di continui aggiornamenti e nuove informazioni, scatenano un effetto “recency bias”, per cui si tende a dare maggiore importanza agli eventi recenti rispetto a quelli del passato. Il ritmo rapido della messaggistica e dei comunicati stampa, e il bisogno percepito di reagire rapidamente stimola ed enfatizza il “pensiero veloce” e una reattività di scelta su base emotiva in contrasto con il “pensiero lento” e criteri di selezione più razionali.
La forte crisi del settore dell’editoria e della carta stampata ha portato anche le storiche testate giornalistiche e quelle più affermate a adottare uno stile sempre più aggressivo arrivando a pubblicare titoli “emotivi” per incoraggiare un “clic-bait” e la diffusione virale dei propri articoli. In questo modo gli utenti passano sempre meno tempo a leggere i contenuti sebbene sia aumentata la quantità delle informazioni disponibili e, contestualmente, la loro diffusione sulla base di condivisioni attraverso i social media. I sistemi di messaggistica in combinato con immagini visive accattivanti, ottimizzati per comunicare attraverso brevi frammenti che spesso omettono contesto e sfumature importanti, impediscono nei fatti ai fruitori del messaggio di comprendere motivazioni e significati. Questo sistema che sacrifica il significato del messaggio sull’altare del mezzo di comunicazione significante, sfruttato in ambito tattico di warfare cognitivo, può facilitare la diffusione d’informazioni tendenziose, facilmente male interpretabili o di narrazioni intenzionalmente distorte.
Il vantaggio nella guerra cognitiva, che rappresenta una commistione fra cyberwarfare e guerra psicologica, va a chi riesce a muoversi per primo e sceglie adeguatamente il tempo, il luogo e i mezzi dell’offensiva. La guerra cognitiva può essere condotta utilizzando una varietà di vettori e media. L’apertura delle piattaforme di social media, infatti, consente agli avversari di colpire facilmente individui, gruppi selezionati o la massa degli utenti in genere tramite attacchi d’influencing perpetrati attraverso il rilascio selettivo di documenti, condivisione di video, ecc.
Difendersi adeguatamente da una simile minaccia richiederebbe anzitutto la consapevolezza che è in corso una campagna di guerra cognitiva e, in secondo luogo, capire che i tempi richiesti per comprendere e orientarsi possono essere molto diversi da quelli normalmente adottati dai policy makers. Potrebbe essere necessario approntare una seria riflessione su come costruire un ente che si occupi proprio di questa nuova forma di conflitto e che possa essere declinato all’interno di una organizzazione o realizzato attraverso un intenso coordinamento nell’Intelligence Community nostrana. Una soluzione potrebbe essere strutturare uno specifico ufficio che si occupi (anche all’interno della futura “agenzia nazione di sicurezza cibernetica”) del monitoraggio dell’identificazione di questo tipo di minacce e che mappi questo genere di campagne man mano che si presentano.
Andrebbero studiati modelli che incorporino dati da un’ampia gamma di social media e siti di social networking così da visualizzare mappe geografiche identificando le posizioni, sia geografiche che virtuali, in cui hanno origine i post o gli articoli “caldi” del momento. Sarebbe possibile osservarne i collegamenti sfruttando algoritmi di machine learning e pattern recognition che potrebbero aiutare a identificare e classificare rapidamente queste “campagne”. Dunque, agire efficacemente per contenere una cognitive warfare richiederebbe di fornire allarmi tempestivi ai decision makers per aiutarli a formulare risposte appropriate alle contingenze.
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